assomiglia all’ingenuità la saggezza

che farsene di uno scrittore che non scrive.

riporlo su una mensola ad impolverare, circondarlo di
preziosi souvenir andini e simil mediorientali, stile tristezza da autogrill.
Rimembrare gli antichi fasti con gravità, con un vino buono ma non troppo, di qualità
media. Mediocre anzi, come ciò che non vale troppo e neanche troppo poco, come
ciò che si dimentica, come un’occasione quasi persa.

Spedirlo a belgrado a consolare gli slavi del sud,
inventargli un ruolo inutile in un’organizzazione internazionalmente inutile,
per esempio l’onu. a scrivere raccomandazioni, petizioni, sanzioni che poi
verranno puntualmente deluse dagli statunitesti, appena hanno un’ora libera da
concedere alla pace.

smistarlo in un ufficio postale qualsiasi a contare i
francobolli prima di dormire. nascondergli la bottiglia sotto il tavolo e
accusarlo di fannulloneggiare. spedirlo, timbrarlo, raccomandarlo, usarlo come
un pezzo di carta da poco, che non ha il potere di decidere di sé. leggerlo e
metterlo via, nel cestino da bukowski mancato o nel tritacarte da membro
effettivo della società moderna.

situarlo in officina a produrre per un’astrazione. produrre
per il sistema cannibalistico economico occidentale, produrre per sostentare
un’ipotetica famiglia, produrre per soddisfare bisogni inesistenti indotti
produrre per poter consumare, produrre per il paese, produrre per il partito,
produrre per un dio o una Fininvest sacrale. consumarlo e poi lasciarlo crepare
di polmonite cronica da vernice inalata o insalata di riso all’amianto e al
carciofo mercurioso. organizzargli un funerale vistoso, con le bandiere e tutti
gli annessi, star male almeno mezz’ora.

sposarlo e farlo procreare. nell’ordine: un figlio gay
incerto, un ciellino represso e crudele, una teorico della rivoluzione
permanente, uno sfaccendato da oroscopo e disco labirinto. divorziarlo
deprimerlo e risposarlo con una donna di alto lignaggio, una bella casa e una
domestica filippina dai grandi sogni. macerarlo nell’assenza della sua figura
paterna e le cerimonie della buona gente. mandare in tilt il robot appena
creato e resettare il sistema operativo che lo gestisce, windows occidental
society.

metterlo in vetrina, candidarlo e farlo eleggere. darlo in
pasto all’opinione pubblica, come se contasse minimamente il punto di vista di
una massa di decerebrati, schiavi alienati rincoglioniti dalla religione tv via
digitale, ignoranti massificati e mercificati fieri e contenti di vivere per
niente. creare il mostro alla ricerca del consenso che, prima di cucinare,
chiede un sondaggio su cosa debba mangiare e con l’equipe che lo dirige si
formi un’opinione sulla lasagna gratinata. discutere decenni sulla bellezza di
un meccanismo per cui la maggioranza è padrona di essere teleguidata e
penetrata fin negli angoli più interni dello sfintere anale. vendergli l’anima
al senato in cambio della presidenza dell’ente protezione pinguini in sicilia.

instillargli una falsa sensibilità e trasformarlo in
animalista. sfruttarlo in una campagna contro l’abbandono dei cani nei cessi
dei bar, elevarlo a sublime integerrimo moralista che investe i barboni sulle
strisce e si dispera se un bassotto non è rinchiuso tra quattro pareti a
mangiare pezzi di cartone per animali. condannarlo a pulire guano con allegria
e convinzione, a mettere pappagalli nelle gabbie e pesci in venti centimetri
d’acqua. instupidirlo a credersi novello san francesco, a comunicare coi
cavalli e a dire cose orrende in falsetto ai labrador, ma quanto sei
cariiiiiino. seppellirlo con sei koala e 40 piccioni da compagnia che non stia
in pace nemmeno nell’aldi là.

mostrarlo inerme come un vero scrittore. che sul foglio è un
dio umile come l’uomo.